di Andrea Di Biase
Non sono in molti a rammentarlo, ma tra il 2003 e il 2007 Matteo Arpe, in qualità di amministratore delegato di Capitalia, è stato uno dei principali creditori delle holding che fanno capo alla famiglia Ligresti. La stessa famiglia che in quegli anni è stata importante azionista dell’istituto romano e che oggi Arpe, dopo averla corteggiata a lungo nell’estremo tentativo di prendere il controllo di Fondiaria-Sai, non esita a criticare per gli «inaccettabili priviliegi» di cui ha goduto «in spregio agli interessi degli azionisti di minoranza». Poco importa se quando era alla guida di Capitalia, l’attuale numero uno del fondo Sator, pur sotto una presidenza forte come quella di Cesare Geronzi, che con i Ligresti ha avuto nel tempo una sintonia particolare, abbia fatto importanti affari con FonSai, alcuni dei quali non si sono invece rivelati tali per il gruppo assicurativo. Basti ricordare la cessione a Fondiaria-Sai del 51% di Capitalia Assicurazioni, avvenuta nel giugno 2006 per 56 milioni, che fruttò una plusvalenza di pari entità sui conti della banca (il 5% dell’utile netto di quell’anno), ma che il gruppo assicurativo più tardi sarà costretto a svalutare per oltre 42 milioni. Se in questi ultimi mesi molto si è scritto, a torto e a ragione, sul fatto che Mediobanca, in virtù del prestito subordinato da 1,05 miliardi è tuttora la banca più esposta nei confronti di Fondiaria-Sai, e che per questa ragione si è impegnata attivamente nel salvataggio della compagnia sostenendo l’operazione Unipol, in pochi si sono presi la briga di ricordare che a partire dal 2003, subito dopo la fusione tra Sai e Fondiaria e l’estromissione di Vincenzo Maranghi da Piazzetta Cuccia da parte di Geronzi e Alessandro Profumo, la banca di riferimento dei Ligresti è stata, fino a quando non è stata incorporata in Unicredit, proprio Capitalia. Gran parte di quei 368 milioni di crediti che le sette banche esposte nei confronti di Premafin intendono mettere al sicuro, seppur debitamente ristrutturati, attraverso l’incorporazione della holding nella grande Uni-FonSai (operazione che Arpe denuncia come dannosa per gli azionisti di minoranza della compagnia), sono infatti stati concessi negli anni da Banca di Roma e Banco di Sicilia, due degli istituti che facevano capo a Capitalia e che sono poi stati integrati in Unicredit. Ma un’origine analoga l’hanno anche parte dei debiti di Sinergia e Im.Co, le due holding non quotate della famiglia Ligresti per le quali la Procura di Milano ha presentato istanza di fallimento. Gran parte dell’esposizione di Piazza Cordusio, pari a circa 180 milioni su un totale di circa 310 milioni, è stata in parte ereditata dall’incorporazione di Capitalia. Si dirà: dietro al sostegno finanziario fornito dall’istituto romano ai Ligresti, che della banca di Via Minghetti sono stati soci con il 3,5%, oltre che clienti, c’era l’aspirazione di Geronzi di occupare un giorno la poltrona di Enrico Cuccia al centro del sistema finanziario italiano. C’è chi lo sostiene, viste le non poche battaglie come quella dell’estate 2004 per l’allargamento del patto Rcs a Capitalia e FonSai, in cui Salvatore Ligresti si schierò a fianco di Geronzi. Ma è altrettanto vero che, al di là della burrascosa rottura consumatasi nel febbraio 2007 con Geronzi, Arpe è stato l’amministratore delegato della banca. Avrebbe dunque potuto cercare almeno di limitare l’esposizione della banca nei confronti dei vari livelli della catena di controllo che da Sinergia, passando per Premafin, arriva fino a Fondiaria- Sai. Ma allo stato non c’è alcuna evidenza che il banchiere, da molti lodato per aver migliorato la qualità del credito dell’istituto capitolino, ci abbia almeno provato. E’ tuttavia importante sottolineare che l’ex enfant prodige di Mediobanca, dopo aver lasciato Piazzetta Cuccia in polemica con Maranghi e dopo la breve esperienza in Lehman Brothers, pur essendo approdato a Roma nel 2001 come ad di Mcc e dg della holding, è stato nominato amministratore delegato di Capitalia solo nel luglio 2003, quando l’istituto romano aveva già rilevato parte dell’esposizione di Mediobanca nei confronti di Premafin (circa 43 milioni nel febbraio 2003) e quando, in tandem con Unicredit, aveva concesso un nuovo finanziamento alla holding, garantito da pegno su titoli FonSai, da 220 milioni (aprile 2003). Allo stesso tempo è doveroso sottolineare come in quegli anni sia il mercato finanziario sia quello immobiliare erano in forte espansione, ragione per cui gli asset dati in garanzia a Capitalia da Sinergia e Premafin bastavano a coprire il rischio assunto. Fondiaria-Sai, che nella primavera 2007 aveva raggiunto una capitalizzazione massima di 5,2 miliardi, aveva chiuso gli esercizi 2005 e 2006 con utili vicini ai 500 milioni. I presupposti per fare credito anche alle holding di famiglia, oggi finite a gambe all’aria, e a Premafin, che oggi Arpe definisce «in stato di decozione», sembravano dunque esserci. Ma se questo ragionamento vale per la Capitalia di Geronzi e Arpe, non può non valere anche per Mediobanca. La decisione del management della banca d’affari, anche nel periodo 2003-2007 guidata da Alberto Nagel (dg) e Renato Pagliaro (condirettore generale), di incrementare a oltre 1 miliardo l’entità del prestito subordinato da 700 milioni concesso nel 2002-2003 per favorire la fusione tra Sai e Fondiaria, troverebbe una spiegazione proprio nelle prospettive che in quel momento avevano le società del comparto assicurativo. Basti ricordare che proprio tra il 2006 e il 2007 importanti investitori come De Agostini, Caltagirone, Del Vecchio e Ferak (la holding partecipata da Palladio, che oggi affianca Arpe nella partita Fon- Sai) erano entrati nel capitale delle Generali quando il titolo valeva tra 25 e 30 euro (oggi siamo a 10,7 euro) ma c’era la prospettiva, suffragata dai report dei principali analisti, che nel medio termine questo potesse raggiungere 40 euro. Il buon andamento operativo di FonSai, in quella fase storica, e le garanzie insite nel contratto di finanziamento, avevano inoltre persuaso il management di Mediobanca, che pure nel 2005 avrebbe chiesto inutilmente alla famiglia Ligresti di fare un passo indietro nella governance della compagnia (sulla falsariga di quanto chiesto da Maranghi nel 2002), della solidità del proprio credito. Così, quando sul finire del 2008, pochi mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, il management di FonSai chiese a Piazzetta Cuccia di portare sopra il miliardo di euro la propria esposizione subordinata per poter incrementare da BBB+ ad A- il rating assegnato da Standard & Poor’s, Mediobanca si rese nuovamente disponibile. Il resto è storia recente. La crisi dei mercati finanziari e lo sgonfiamento della bolla immobiliare (settore in cui Ligresti ha costruito gran parte delle proprie fortune) ha reso insostenibile il debito delle holding. Nel frattempo, con Capitalia ormai incorporata da Unicredit, l’onere di decidere se lasciare la famiglia al proprio destino o salvarla nuovamente, come fatto da Cuccia nei primi anni 90, era toccato a Profumo. Nei mesi che precedettero la sua defenestrazione da Piazza Cordusio ad opera delle fondazioni, il banchiere che aveva portato Unicredit alla conquista della Germania, si impegnò per ristrutturare il debito delle holding dei Ligresti. L’accordo tra Sinergia, Im.Co e le banche creditrici, che ha consentito alle holding di andare avanti fino ad oggi (salvo un nuovo aggiustamento nel giugno 2011), fu firmato il 10 agosto 2010. Solo poche settimane dopo, Profumo fu costretto a dimettersi dalla carica di amministratore delegato. In quella lunga e drammatica riunione del cda di Unicredit del 21 settembre, gli unici ad astenersi sulla mozione
di sfiducia nei confronti dell’ad furono Lucrezia Reichlin e proprio Salvatore Ligresti. (riproduzione riservata)